"Ci sono libri che si posseggono da vent'anni senza leggerli, che si tengono sempre vicini, che uno si porta con sè di città in città, di paese in paese, imballati con cura, anche se abbiamo pochissimo posto, e forse li sfogliamo al momento di toglierli dal baule; tuttavia ci guardiamo bene dal leggerne per intero anche una sola frase. Poi, dopo vent'anni, viene il momento in cui d'improvviso, quasi per una fortissima coercizione, non si può fare a meno di leggere uno di questi libri di un fiato, da capo a fondo: è come una rivelazione."

Elias Canetti

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»

(I. Calvino, Perché leggere i classici, def. 6)


Il critico Lytton Strachey (a destra) prende il tè con Rosamond Lehmann e suo fratello, John Lehman del circolo Bloomsbury : i componenti del celebre circolo letterario inglese che ha contribuito a definire la cultura britannica nel periodo tra le due guerre

martedì 16 dicembre 2014

Il fucile da caccia di Inoue Yasushi


Trama: Quando nel 1949, il gornalista, poeta e critico d'arte Inoue Yasushi pubblica il suo primo romanzo ha quarantadue anni. In quest'opera l'autore trova nella brevità una misura ideale e, nell'oscillazione tra il detto e il non detto, raggiunge un miracoloso equilibrio narrativo. Un equilibrio difficile e impervio come il gioco amoroso che tiene legati i destini dei quattro personaggi, un uomo e tre donne, e che li accompagna nel corso degli anni senza mai turbare la calma ritualità delle loro esistenze. Eppure il romanzo è attraversato da una tensione costante, da una rabbia sorda e trattenuta che esplode alla fine, quando ogni menzogna viene svelata, ogni passione consumata e a regnare è la consapevolezza che ogni essere è abitato da una vita segreta.


Il confronto
 
G.: L'ho letto attentamente e mi ha fatto venire il magone perchè impregnato di una tristezza pazzesca. Mi ha ricordato un altro libro “Come l'acqua che scorre” di Marguerite Yourcenar. Mi ha colpito il rapporto fra marito e moglie: l'ipocrisia di quest'uomo, Midori, nei confronti della donna. La moglie Misugi si comporta in modo strano nel momento in cui, novella sposa, scopre che il marito la tradisce con la cugina  Saiko ma riesce a tenere il segreto fino alla morte della cugina stessa. Mi ha dato molto fastidio il comportamento dell'uomo, ho provato più simpatia per la moglie che, nonostante tutto, è riuscita a mantenere all'interno della famiglia un equilibrio fino alla fine . E' possibile che un marito sia così insensibile?
Saiko, l'amante è molto strana nel suo comportamento.

M.: Ho trovato agghiacciante il momento in cui Saiko annuncia alla figlia che si è avvelenata. Non ho afferrato nella poesia pubblicata all'inizio cosa rappresentava il fucile da caccia. Ho pensato che il fucile sulle spalle del cacciatore fosse la metafora della difficoltà della vita e l'alveolo del fiume la vita che scorre.

C.: E' il gioco delle apparenze. Il cacciatore nella poesia rappresenta un'idea di uomo ben diverso dalla persona reale che nella vita si rivela di essere una persona molto sola e con alcune fragilità. E' un uomo molto scialbo. Quel che appare in realtà non è. Il poeta è colui che è in grado di vedere oltre a quello che appare.

O.: Sembra una scenografia. Midori è negativo ma ama: l'amore è contraddittorio. Lo immagina come l'alveo di un fiume, cioè lo scorrere della vita.

G.: L'alveo del fiume ha più di un significato. Ognuno di noi lo vede in modo diverso.

M.: C'è una malinconia tremenda. E quest'uomo che non vale poi molto.

O.:  Ho vissuro come negative sia la moglie Misugi che Saiko. Saiko  effettivamente aveva amato il marito e avrebbe potuto perdonarlo e comprenderlo, poichè aveva in sè anche lei, come tutti, il serpente della malvagità.

L.: Saiko ha preso la strada della malvagità per tutelarsi nei confronti del marito. Ma quando ha saputo che il medesimo stava per sposarsi, nonostante il tempo trascorso dalla loro separazione, ha deciso di togliersi la vita.

C.: Saiko era malvagia perchè stava facendo un triplo tradimento: all'amante, alla cugina, al marito. Alla fine sono tutti soli con i loro serpenti, negatività e amore. Non c'era tra loro nessuna corrispondenza di sentimenti: ognuno amava per contro proprio. Si fa strada un dilemma: E' meglio essere amati  o amare?

M.: Emerge la cultura giapponese nell'apprezzamento della natura. La figlia durante la veglia al cpezzale della madre dice cose bellissime : “Voi siete tutti e tre chiusi nei vostri pensieri più segreti" "l'amore sta salendo in cielo" "cosa vale la morte di una persona..." E prende le distanze sia da Midori (la cugina della madre) che da Misugi, amante di Saiko e marito di Misugi, e non li vuole più vedere.

E.: Inizialmente non ho considerato molto la figlia che non era la protagonista principale. Quando  ho letto le lettere sucessive ho provato il senso di una grande liberazione. Infatti la figlia spezza una catena, un circolo vizioso. Sa prendere distanza da tutte le bugie e conservare, a dispetto di quanto viene a conoscenza, la propria idea sugli uomini e sull'amore. Le figure maschili restano ai margini, con tutte le loro colpe, come degli esseri non pensanti. E' sicuramente molto bella l'immagine del serpente che rappresenta la dualità, la parte oscura di noi tutti.

 Recensione de L'indice

Nel panorama della letteratura giapponese contemporanea, Inoue Yasushi (1907-1991) occupa un posto a parte, difficilmente catalogabile in una specifica corrente, per la varietà dei temi che ispirano la sua vasta opera. Nato nell'isola di Hokkaido dove il padre, medico militare, era stato assegnato, all'età di sei anni venne mandato a vivere dalla nonna, una ex geisha, nella provincia di Shizuoka, perché crescesse nel villaggio di cui la famiglia era originaria. Iniziò a interessarsi alla poesia fin dalla scuola media e cominciò molto presto a scrivere brevi poemi, ma dopo la laurea in estetica e filosofia nel '36 (con una tesi su Paul Valéry) e la parentesi del servizio militare (dal '37 al '38 venne mandato come soldato di fanteria in Cina), abbandonò quasi subito la carriera letteraria per iniziare quella giornalistica. Fu solo dopo la guerra che Inoue decise di dedicarsi alla scrittura, iniziando con il racconto Il fucile da caccia, subito acclamato da critica e lettori, cui seguì una produzione estremamente vasta che gli procurò in patria la consacrazione di "tesoro nazionale vivente".
La fama letteraria di Inoue in Giappone è legata soprattutto a lunghi romanzi storici in cui ricrea, con ispirazione tolstoiana, atmosfere epiche della storia cinese e giapponese (Koshi, del 1982, una biografia romanzata di Confucio, ottenne un immediato successo tra i giovani), ma sono le opere in cui tratta di argomenti intimi, a volte autobiografici, quelle che più lo avvicinano al lettore occidentale. La solitudine dell'essere umano, la tristezza della separazione da ciò che sia ama - persone, luoghi, ambienti - la perdita di illusioni e speranze sono i temi che ispirano i suoi libri più toccanti, tra cui Shirobamba (1967), nel quale l'autore narra la sua infanzia. In Italia non si conosce molto di lui: a parte un paio di novelle apparse su riviste specializzate, finora erano stati pubblicati La montagna Hira (Bompiani, 1964), il racconto autobiografico Ricordi di mia madre (Feltrinelli, 1986), tre novelle uscite con il titolo Il falsario (Il Melangolo, 1995) e La corda spezzata (Vivalda, 2001), cronaca di una scalata.
Esce ora per Adelphi, nelle bella traduzione di Giorgio Amitrano, proprio il racconto epistolare con cui Inoue ha iniziato la sua carriera letteraria, da molti considerato il momento più poetico, l'opera più geniale, nella sua brevità, di tutta la sua produzione.
Il tema che l'ispira - l'illusorietà dell'apparenza, dietro la quale ogni individuo nasconde il segreto della sua vera natura e dei suoi sentimenti profondi - è annunciato nel primo capitolo, in cui uno scrittore, invitato a comporre una poesia per la rivista di un circolo venatorio, si rende conto, a cose fatte, che la figura assorta, quasi sofferente, evocata nei suoi versi non corrisponde all'immagine vigorosa del cacciatore che gli si chiedeva di esaltare. Al contrario, dietro la calma solenne di quell'uomo si indovina il peso di un dolore. In seguito alla pubblicazione della poesia, un certo Misugi scrive all'autore, dicendo di riconoscersi in quel cacciatore solitario, e gli invia tre lettere, da lui ricevute da altrettante donne. Dalla lettura di queste veniamo a conoscenza di un dramma segreto durato tredici anni - il classico triangolo: un uomo, la moglie e l'amante di lui - visto attraverso gli occhi delle due donne, che sono cugine, e della figlia dell'amante.
Nella prima lettera Shōko, la figlia, rivela lo sconcerto provato nell'apprendere, dal diario della madre, l'esistenza di una relazione illecita fra quest'ultima e Misugi, che lei chiama zio. Sentendosi tradita da tutti - dalla madre, che le ha tenuto segreto un legame così intenso da resistere per tanto tempo a un devastante senso di colpa; dallo zio, in cui nutriva fiducia assoluta; dalla zia, che rappresentava per lei un'ideale di femminilità estroversa e dinamica - la ragazza decide di allontanarsi per sempre dalla famiglia. La seconda lettera è di Midori, la moglie di Misugi, che in realtà ha sempre saputo, fin dall'inizio, della relazione del marito con la cugina, ed è vissuta nell'amarezza di un tacito patto: fingere di non vedere le reciproche colpe. Perché anche lei, spinta dal tradimento di Misugi a un crescente distacco, in più occasioni non gli è stata fedele. Ma la morte della cugina, mettendo fine alla necessità di continuare una triste farsa, ponendola di fronte allo squallore del proprio rapporto col marito, la induce finalmente a domandare il divorzio. Nella terza lettera Saiko, l'amante, che per tutto il tempo della relazione è stata oppressa dal senso di colpa e da un presagio di morte, racconta di aver capito, ora che si sente vicina alla fine, non solo che Midori era a conoscenza del suo rapporto con Misugi, ma che questo fatto lascia lei, Saiko, indifferente. E che in fondo al cuore non è riuscita a soffocare l'amore per il marito, dal quale si era separata molto presto, dopo aver scoperto che lui la tradiva. Un senso di solitudine insopportabile la travolge allora, togliendole la forza di lottare per la vita.
Tutte le lettere sono d'addio, per l'impossibilità di sopportare oltre il peso della menzogna, per l'incapacità di ricucire lo strappo aperto nella coscienza delle tre donne dal divario tra la realtà e la serenità illusoria che hanno cercato, ognuna a suo modo, di preservare. Misugi, figura di seducente drammaticità che prende corpo, come tutta la vicenda, attraverso le tre lettere, resterà solo, col ricordo del suo amore per Saiko, e forse il rimorso per il dolore arrecato.
Il tema della solitudine dell'individuo, che cela il suo vero io anche alle persone più amate, persino a se stesso, ricorre sovente nella letteratura giapponese, sia in autori della generazione di Inoue (Tanizaki Junichiro, Abe Kobo) sia in autori più giovani, molto lontani da lui per sensibilità e interessi (Murakami Haruki, Banana Yoshimoto). Cosa che non può stupire in un paese dove la dicotomia tra apparenza e sostanza costituisce, più che altrove, una delle caratteristiche della psiche collettiva. Nel racconto Il fucile da caccia, tuttavia, l'autore infonde in questo tema una rara intensità emotiva, espressa in un linguaggio nitido ed essenziale che il traduttore ha saputo felicemente ricreare. Inoue scandaglia l'animo dei suoi personaggi con una lucidità penetrante, quasi spietata, ne mette a nudo tutta la devastazione, trasmettendone in maniera lirica e immediata l'angoscia e il disorientamento. Una limpidezza che evoca le immagini di uno dei più bei film del cinema giapponese, Rashomon di Kurosawa Akira, in cui un tragico episodio viene raccontato dai tre protagonisti in tre versioni diverse, con la stessa drammatica semplicità, lo stesso pathos che troviamo nelle pagine di Inoue. Sia il libro che il film riprendono infatti un altro tema caro alla sensibilità giapponese, la consapevolezza che la realtà assume aspetti diversi, a seconda del punto di vista da cui la si osserva, e sfugge a ogni spiegazione obiettiva. Bisogna solo accettarla così com'è.
L'impressione che il lettore conserva alla fine del libro non è quindi né di disperazione, né tanto meno di condanna. L'autore non giudica, raccoglie la confessione dei suoi personaggi, si direbbe quasi che li perdoni, e soprattutto li fa amare per l'intensità della loro passione, la loro debolezza, la loro sofferenza. Per quel groviglio di sentimenti che sono al fondo dell'animo umano, sul quale ogni tanto un poeta riesce a fare un po' di luce.

A. Pastore è saggista e traduttrice letteraria dal giapponese e dal francese