"Ci sono libri che si posseggono da vent'anni senza leggerli, che si tengono sempre vicini, che uno si porta con sè di città in città, di paese in paese, imballati con cura, anche se abbiamo pochissimo posto, e forse li sfogliamo al momento di toglierli dal baule; tuttavia ci guardiamo bene dal leggerne per intero anche una sola frase. Poi, dopo vent'anni, viene il momento in cui d'improvviso, quasi per una fortissima coercizione, non si può fare a meno di leggere uno di questi libri di un fiato, da capo a fondo: è come una rivelazione."

Elias Canetti

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»

(I. Calvino, Perché leggere i classici, def. 6)


Il critico Lytton Strachey (a destra) prende il tè con Rosamond Lehmann e suo fratello, John Lehman del circolo Bloomsbury : i componenti del celebre circolo letterario inglese che ha contribuito a definire la cultura britannica nel periodo tra le due guerre

martedì 14 febbraio 2012

Incontro con l'autore: Benedetta Cibrario

Il gruppo di lettura,
nell’ambito della
Rassegna di letture spettacolari e incontri con l’autore
a cura del Sistema bibliotecario
Sud Ovest Bresciano 
Martedì 14 febbraio 2012
ore 21.00
nell' Auditorium “G. Gaber”
Via Onzato 56
ha incontrato l’autrice
Benedetta Cibrario
E' nata a Firenze, nel 1962. E’ cresciuta a Torino, dove si è laureata in Storia del Cinema ed è vissuta a lungo in Inghilterra. La sua vera residenza, per dedizione e amore della terra, rimane però la Toscana.
Rossovermiglio (Feltrinelli) è il suo esordio narrativo, che le ha portato la vincita del Premio Campiello 2008.
Il romanzo racconta del tentativo (e dei successivi esiti) di una donna educata alla maniera ottocentesca, di raggiungere la propria indipendenza nell'arco di buona parte del novecento, dal periodo precedente la Seconda guerra agli anni della nuova Repubblica.
La seconda e attesa prova narrativa dell'autrice, Sotto cieli noncuranti (Feltrinelli), è stata vincitrice del premio Rapallo Carige 2010. Quasi un giallo ambientato nei giorni di un Natale nevoso, tra Torino e la Val di Susa. Nel 2011 l'autrice pubblica con Feltrinelli il romanzo Lo scurnuso.

Lo scurnuso, Feltrinelli, 2011
Dalla Napoli borbonica fastosa e miserabile, passando per la Napoli sfigurata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, fino a oggi, per vicoli e palazzi, umide stamberghe e salotti sontuosi, si dipana il destino dello Scurnuso, "il Vergognoso"… Benedetta Cibrario dispiega una sequenza narrativa che ha come protagonista la bellezza stessa, una bellezza umile che dice le ragioni di un durevole incantamento.


L'autrice dialoga con Diego Trapassi di Teletutto
Il mio nuovo libro è un viaggio nel tempo: il protagonista è stato soprannominato lo Scurnuso.
Il personaggio principale è una statua di terracotta del presepe napoletano, lo scurnuso appunto, modellata alla fine del 700 dal  giovane Sebastiano, selvatico e di grande talento, che vuole ritrarre con essa Tommaso Iannacone, suo maestro e padre adottivo. Lo scuorno, ritratto nell'atteggiamento del pastore, è  la vergogna che Iannacone proverà sapendo di perdere l'uso delle mani, già gravemente compromesse dalla malattia.
Nella prima parte, ambientata nella Napoli del 700, vi è la descrizione di chi ha modellato la scultura e di chi è rappresentato.  La seconda parte si svolge sempre a Napoli sotto le bombe della seconda guerra mondiale, e infine l’epilogo ai nostri giorni nella penisola sorrentina. Diversi sono i protagonisti, i personaggi, anche il paesaggio. Napoli è molto presente. Ho sempre saputo che prima o poi avrei fatto i conti con Napoli, con il mio personale serbatoio di emozioni. Sapevo che dovevo misurarmi con questa realtà. Essendo figlia di una napoletana e di un torinese ho vissuto in tutti questi luoghi, ma ho sempre sentito una certa discrepanza con i posti. Quando eravamo a Napoli ci trattavano come famiglia del nord, a Torino come napoletani, a Firenze non eravamo né carne né pesce. Napoli, disse uno scrittore, è come la testa della medusa: è un posto che ami o che odi,  ma non puoi essergli indifferente. E’ stato scritto molto su Napoli: Da Anna Maria Ortese a Raffaele La Capria. Pertanto, per non cadere nel banale, ho scelto di parlare della città antica. Un libro che amo molto è “Ferito a morte” di Raffaele La Capria, scrittore che ho sempre ammirato. In una libreria in cui ero stata convocata per la presentazione dello Scurnuso mi accade di trovarmelo davanti. Ho pensato che non sarei riuscita a pronunciare una parola. La Capria mi disse subito  “Ho letto il tuo libro: si sente che non sei napoletana, ma che la tua napoletanità è filtrata dai ricordi e dagli affetti". Infatti si sente che non lo sono. Mia nonna materna era molto legata a Napoli, ogni volta ci portava a vedere le stesse chiese, gli stessi musei e ogni volta, con i suoi racconti e le sue descrizioni, erano come nuovi: è da lei che ho imparato ad amarla.
Sono arrivata a Napoli per la presentazione di “Sotto cieli non curanti”. E' una bella giornata, prendo un taxi e dico al taxista “Come è bello qui!”e lui ribatte: "Non lo dica che è bello essere a Napoli,  io mi vergogno di essere napoletano e ho detto ai miei figli andate e non tornate più.” Quell’emozione, che ricordo molto forte, mi ha fatto pensare in modo diverso a questa città e anche per questo ho fatto la scelta di una ambientazione diversa rispetto agli altri miei libri.
Il presepe è molto presente a Napoli. Il presepe napoletano è una sorta di follia collettiva . Dalla corte borbonica a Carlo III di Borbone,  fino al parroco e al farmacista, tutti allestiscono il presepe: è una passione trasversale, che contagia  tutti gli strati sociali. Passano tutto l’anno a immaginare come allestire il presepe, che costituisce per i napoletani il corrispettivo del carnevale di Rio  per i  brasiliani. Il presepio ha la sua spiritualità. Ci sono tre momenti canonici nella preparazione. Il presepe napoletano nel 700 è teatro, è la fotografia della società, è un viaggio nella storia: tutti i pastori sono vestiti con abiti settecenteschi e tutti gli oggetti che lo compongono sono fatti da fini artigiani. Per esempio i vetri sono realizzati dai vetrai, le ceramiche dai ceramisti, i piccoli piatti in argento dagli argentieri ecc. Nel libro "Lo scurnuso" è descritta  la follia del collezionista, nella persona del  Duca di Albaneta. Ma anche Giovanni Scotti, che è il restauratore,  preso dalla sua passione, si rifiuta di andare nel rifugio durante il bombardamento per continuare il suo lavoro.
Ho scelto di descrivere lo scurnuso solo in una pagina: a me non piace raccontare tutto, mi piace che il lettore possa intervenire con la sua immaginazione. Avrei potuto descrivere la Napoli settecentesca per pagine e pagine. Potevo sviluppare la storia ma non ho voluto: ho introdotto molti personaggi e per scelta li ho sviluppati poco. Ho voluto che ci fosse un dialogo tra: lentezza e leggerezza, tanto e poco, passato e presente.
Non so scrivere romanzi come si fa nelle scuole di scrittura. Se preparo una scaletta, come insegnano di fare, se butto giù uno scritto, so che non lo svilupperò mai. Se prendo appunti non li adopero. Gli altri romanzi hanno avuto una gestazione completamente diversa da questo. Con Rossovermiglio non sapevo neppure come si cominciasse. Sapevo che volevo scrivere la storia di una donna che non si sentiva a casa sua da nessuna parte. Sono una scrittrice visuale. Mi piace vedermi davanti quello che andrò a scrivere. La prima stesura è stata molto lunga: è durata circa 10 anni, era un volume di circa 500 pagine che è sempre stato rifiutato. Dopo i rifiuti ricominciavo a lavorarci togliendo, eliminando.
Il secondo libro è stato meno faticoso. Ed il terzo è stato una passeggiata: dopo la prima fase ho continuato senza ripensamenti e l'ho scritto in 4 mesi: avevo già la storia davanti a me dovevo solo scriverla.
Qual'è il tuo rapporto con i libri?
 Lo Scurnuso nasce con questa mancanza di incertezze, perché nasce da solide letture. Ho letto di tutto senza fare distinzione tra letteratura alta media o bassa. E' il tempo che colloca l’oggetto non la legge del mercato e così accade pure per i libri. Come formazione vengo dal cinema. Mi piace Alfred Hitchock, che all'inizio della sua carriera non era considerato: è stato in seguito che è diventato importante. Sono una lettrice onnivora: leggo di tutto e amo anche i classici. Le cose che avevo da dire in questi tre romanzi le ho dette. Lo scrittore vive e osserva,  ma le cose vissute si devono un po’ sedimentare. Non sono stata un esordiente giovanissima: avevo 40 anni quando ho iniziato.
Ora sento il bisogno di leggere.
I tre libri sono diametralmente diversi: ciò spaventa il mio editore, che spererebbe seguissi l'andamento dell’uno o dell’altro.
Alla scrittura ci sono appunto arrivata tardi, già madre di 4 figli, moglie di un manager che mi ha trascinato in giro per il mondo. All’inizio non sapevo quasi nulla, anche di letteratura. Mi è capitato di incontrare colleghi scrittori di cui non avevo letto nulla. In seguito questa mia mancanza l’ho considerata una sorta di privilegio perchè mi ha consentito di avere un privato.

Le domande del pubblico

Lo scurnuso perché questo titolo?
“ Non volevo chiamarlo scurnuso. E' un titolo che non fa venir voglia di leggerlo. In realtà ho avuto più difficoltà a trovare il titolo che a scrivere il libro. E'stato l’editore: durante il nostro incontro per definire un titolo, aprendo a caso una pagina mi ha guardato dicendo “ ma il titolo l’hai già scritto è lo scurnuso”.

Il suo primo libro “Rossovermiglio” l’ha dedicato a suo padre, perché ?
“Perché è stato il primo a capire la mia passione per la scrittura".

Nell’intervista di qualche anno fa disse: “Da quando ho ricevuto il si alla pubblicazione del libro è come se avessi smesso di essere - la figlia di, la moglie di,  la mamma di - : sono diventata io. Cosa è cambiato da quel momento ? La carriera quanto è importante per lei?
“Io ho desiderato tutta la vita scrivere, ma mi hanno sempre detto di fare qualcosa d’altro. Quando ero ragazzina e mia madre mi vedeva scrivere mi diceva studia, quando ero sposata mi dicevano di occuparmi d' altro. Nessuno capiva quanto fosse importante per me scrivere.
Il pensiero mi è balenato visitando la casa di Jane Austen. Lì ho pensato all'operosità femminile della Austen, che passava dal ricamare un merletto, dall' incerare il pavimento allo scrivere.  Anch’io ho pensato che potevo fare lo stesso. Ma è scrivere che mi fa stare bene.
Quando Feltrinelli mi ha chiamato avevo avuto un rifiuto da un altro editore e quindi mi sono presentata all’appuntamento pensando che anche lui mi avrebbe detto: "non mi interessa", ed invece firmai il contratto. Fu una felicità enorme. E quando uscii dall’ufficio pensai: a chi lo dico? A mio figlio, a mio marito... No, non lo dico a nessuno. Tutto quel mondo alll'improvviso mi era esploso".

Sempre riferendoci a Rossovermiglio vorrei che mi spiegasse come mai il marito le chiede di lasciare l’eredità al figlio che lui ha avuto dalla sua seconda donna?
Non essendosi mai separati legalmente, il marito sa che la moglie è benestante, perciò le chiede di rinunciare alla sua parte
Perché la protagonista non ha tenuto il figlio che aspettava? E poi quando lei cerca di rivelare al figlio di essere la madre lui, sembra non capire?
Non perché è un figlio illegittimo ma perché è stata abbandonata: è una sorta di scudo, più che altro è amarezza. E’ difficile credere che tua madre ti viva accanto tutta la vita senza mai dichiarasi.
E’ una donna piena di vigliaccheria: ha avuto una educazione anaffettiva, fatta di sentimenti negati e congelati. E’ una donna che fa finta di essere coraggiosa,  ma ha paura anche della sua ombra. Di ben altra caratura è il marito che l’ha amata moltissimo senza essere ricambiato e che successivamente sceglie una compagna che lo fa sentire amato.

Nel nostro GDL ci siamo un po’ lamentati perché questi personaggi non sono stati molto indagati.
Inoltre con "Rossovermiglio" e "Sotto  cieli noncuranti " ho vissuto la discriminazione per la donna. Lei nell'ambiente della scrittura l'ha vissuta mai?
Vedo segni positivi di cambiamento. Io ho fatto la pace con un sentire maschile diverso. Penso che siamo equivalenti ma diversi: uno specifico maschile e uno femminile. La famiglia di mia madre per tradizione è matriarcale, dominata da figure femminili forti. La discriminazione l’ho vissuta fuori dalla famiglia. Nel mondo della scrittura non l’ho percepita. Mi inalbero quando parlano di scrittura femminile. Se ritagliate dei paragrafi, ciascuno di autori diversi, non è riconoscibile il genere di chi lo ha scritto, se è maschio o se è femmina. Non esiste una scrittura femminile o maschile. Jane Austen ha una prosa maschile, trasparente. Lo scurnuso non è una storia femminile.
Spesso mi chiedono come concilia il lavoro di scrittrice con gli impegni famigliari. Nei paesi anglosassoni nemmeno lo chiederebbero perchè non è politicamente corretto.  E' discriminante. A nessun manager viene chiesto come fa a lavorare e avere quattro figli.

Come è stata l’esperienza del Campiello?
Feltrinelli ha mandato il libro senza che lo sapessi. Immaginate lo stupore quando mi hanno chiamata. Durante la serata mi hanno detto che facevo parte dei cinque nomi dei possibili vincitori : Bouchard, Tani, Gamberale e Di Stefano. Non mi aspettavo di vincere.

I tre libri da lei scritti sono diversi dal primo all’ultimo
Rossovermiglio è fatto di flashback, avanti e indietro nel tempo. Racconta quasi un secolo. E' molto condensato. E' stato un lavoro di struttura. Lo Scurnuso ha dei titoletti che non corrispondono al dialogo, è un opera di fiction. Non ho voluto usare il dialetto ma restituire un senso alla napolanità. E' in un italiano che riecheggia un modo di parlare dialettale.

La protagonista di Rossovermiglio non ha un nome perché?
Non ho dato un nome alla protagonista di Rossovermiglio non riuscivo a trovarlo. Nessun nome le corrispondeva  perché c’erano troppe donne in una. Corrisponde a una certa elusività: è una donna che tiene a distanza i suoi affetti.

C’è un filo comune che caratterizza tutti i personaggi e le situazioni dei suoi tre romanzi : sono i sentimenti celati, non detti, come se non ci fossero "le parole per dirli", sia che si tratti di un "sentire" positivo che negativo (come per esempio il dolore della perdita in Sotto i cieli non curanti). E’ una scelta voluta dalla scrittrice perchè espressione del suo modo di essere?
Non c’è bisogno che uno scrittore indugi su quella che è la grammatica dei sentimenti.   A volte in alcune scritture questo soffermarsi mi sembra un po’ morboso. Non c'è bisogno di approfondire: parliamo di cose che tutti conosciamo.
La protagonista di "Sotto i cieli non curanti" è Matilde. Matilde, non è una persona sola,  è frutto di un collage di bambini che sono stati miei coetanei. I bambini, specie se non capiscono, hanno bisogno di riportare l’equilibrio e l’armonia. Matilde si inventa una realtà parallela che fa si che tutto riacquisti un equilibrio.



Tratto da: GIORNALE DI BRESCIA, GIOVEDÌ 16 FEBBRAIO 2012 - CULTURA&SPETTACOLI

BENEDETTA CIBRARIO
«La mia Napoli, forte e fragile lungo i secoli del declino»

La scrittrice di origine partenopea, premio Campiello 2008,
ha presentato a Castel Mella l’ultimo romanzo «Lo scurnuso»

Lo «scurnuso» evocato nel titolo del terzo romanzo di Benedetta Cibrario è un «pastore», una statua del presepe napoletano modellata a fine ’700 dal giovane Sebastiano, pastoraio dal carattere selvatico e dal gran talento.

L’uomo raffigurato -colui che dà l’impressione di «mettersi scuorno», vergognarsi -è Tommaso Iannacone, l’artigiano che è stato maestro e padre adottivo di Sebastiano.

L’allievo lo ritrae con «le mani e i piedi contorti in uno spasmo»: una malattia ha gravemente limitato le sue capacità di lavoro. «La vergogna spiega la scrittrice -è quella che Iannacone prova quando immagina cosa accadrà nel momento in cui non potrà più usare le mani: il pensiero di una vita che si chiude in un modo non voluto».

Benedetta Cibrario, fiorentina di madre napoletana e padre torinese, ha presentato il libro l’altra sera all’auditorium di Castel Mella, nel-l’ambito della rassegna «Un libro, per piacere!» promossa dal Sistema Bibliotecario Sud Ovest Bresciano.
Ha dialogato con Diego Trapassi, giornalista di Teletutto, e risposto a molte domande di un pubblico preparato e curioso. Parlando anche dei primi romanzi, a partire da quel «Rossovermiglio» -edito, come i successivi, da Feltrinelli -premio Campiello nel 2008.

Il suo scurnuso «viaggia per le invisibili e argentee strade del tempo» attraversando i secoli e destando in chi lo vede un misto di ammirazione e disagio. Lo rincontriamo nella Napoli ferita dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, in mano al collezionista Girolamo Valcarel duca di Albaneta; infine ai giorni nostri, nella penisola sorrentina. La città pulsa sullo sfondo della vicenda: «Ogni scrittore fa i conti col proprio serbatoio d’emozioni. La mia visione di Napoli è filtrata dal ricordo della nonna materna, dei suoi racconti, della passione con cui ci guidava per la città. Sapevo che Napoli era lì, che avrei dovuto misurarmici. Ma è difficile, si rischia il banale, ci si confronta con autori come La Capria e la Ortese. Da questa mia paura è venuta forse la scelta di parlare d’una Napoli antica».

Come è nata l’idea di un romanzo su una statuetta del presepe?

Ho sempre guardato con stupore queste sculturine, piccoli capolavori di artisti spesso anonimi. Ho provato a immaginare cosa ci fosse dietro: un mestiere ma anche una passione. La loro fragilità è commovente, ma mi sono resa conto che commovente non era tanto la fragilità degli oggetti, quanto quella degli uomini che li avevano prodotti. Le cose, belle o brutte, alla fine ci sopravvivono sempre. Racconto anche la «follia» di chi colleziona questi come altri oggetti: il duca di Albaneta, che «non avrebbe interrotto la consuetudine di montare la scena sacra nemmeno sotto una pioggia di bombe».

Perché ha scelto quei determinati periodi storici?
Sono tre momenti molto critici. Alla fine del ’700 a Napoli va via un grande re, Carlo III di Borbone, e per la città comincia il declino. Il 1942-43, sotto le bombe, è di nuovo un momento in cui la città è stata devastata e si sono prodotte molte cose che hanno determinato la Napoli di oggi.
Infine l’attualità, nel breve epilogo: un altro passaggio delicato, nel quale la città è in bilico tra sopravvivenza e morte definitiva.

Lo stile e il linguaggio, molto asciutti, non sono quelli di un romanzo storico...
Ho scelto di raccontare una storia del passato, ma in filigrana traspare un sentire contemporaneo. Nessuno degli eventi che narro è poi perfettamente compiuto: ho scritto un romanzo breve, ma ogni sua parte avrebbe potuto crescere all’infinito.
Potevo descrivere per pagine e pagine la Napoli del ’700. Invece ho scelto di dare semplicemente uno scorcio, un fascio di luce a illuminare un attimo, per poi spostarmi altrove.

Anche le emozioni dei personaggi sono trattenute.
Il contenimento delle emozioni è una caratteristica comune anche agli altri miei romanzi. Sono una persona schiva e riservata, e ho sempre pudore a descrivere fino in fondo storie di sentimenti. Preferisco fermarmi un attimo prima, lasciare che sia il lettore a completare con la sua immaginazione e la sua visione del mondo quello che io gli ho fatto appena intravedere.

Come ha lavorato sulla lingua?
Non volevo usare parole dialettali, ma restituire un senso di napoletanità, di lingua antica. È un italiano che riecheggia un modo di parlare dialettale, senza avere assolutamente nulla del dialetto. Cerco sempre di scrivere storie leggibili, che non annoiano il lettore, ma al loro interno faccio un lavoro complesso. Nel mio secondo romanzo, «Sotto cieli noncuranti», c’era un andamento temporale a incastro, con voci narranti in prima e terza persona. «Lo scurnuso» unisce in successione tre epoche storiche; ogni capitolo ha titoletti «narrativi» che ricordano quelli delle fiabe.

Ha un suo metodo di scrittura?
Non so scrivere romanzi come insegnano alle scuole di scrittura. Se abbozzo la scaletta di un libro, è sicuro che quell’idea non la svilupperò. Non prendo appunti per strada o in viaggio, perché non li adopero. Quando ho cominciato «Rossovermiglio» sapevo solo che volevo scrivere la storia di una donna che non si sentiva a casa da nessuna parte. A furia di star seduta alla scrivania, il «Nelle mie storie del passato scelgo un sentire contemporaneo» racconto si è formato. La stesura è stata lunghissima, ci son voluti dieci anni. Con «Lo scurnuso» invece è stata una passeggiata di salute! Ho scritto tutto subito, senza ripensamenti, in quattro mesi. La storia per la prima volta mi scorreva davanti agli occhi, un’esperienza esaltante.

Nicola Rocchi



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