intervistato da Alex Rusconi
SABATO 5 marzo ore 21
CASTEL MELLA
Auditorium "G. Gaber"
Via Onzato, 54
Rassegna "Un libro, per piacere! Storie d'Italia"
A cura di Michele Curatolo, del GDL di Castel Mella
Le vorremmo chiedere, prima di tutto, una definizione del suo modo di essere scrittore.
A me è sempre piaciuto raccontare. Da piccolo, quando ancora frequentavo la scuola elementare, gli unici momenti piacevoli li passavo durante la lezione di italiano, mentre la maestra leggeva alla classe i miei temi, che già da allora erano delle piccole storie. Quando dovevo studiare matematica, invece, ero il più asino di tutti.
Dunque il suo talento di scrittore nasce da una predisposizione naturale.
Direi di sì. Ma vorrei precisare ancora meglio: più che scrittore, io mi considero un cantastorie, uno dei quei personaggi che, un tempo, se ne andava in giro per paesi e città con un po’ di fantasia e una scorta di storie da raccontare alla gente nelle piazze. In realtà non sono un cantastorie, anche se pubblico perlopiù romanzi storici. C’è però una differenza tra il mio modo di scrivere e quello degli storici ufficiali o dei saggisti.
In che senso?
Chi scrive un saggio deve essere scientifico, rigoroso, persino un po’ freddo rispetto ai fatti che tratta. Mestiere nobilissimo quello del saggista, sia chiaro. Ma io scrivo romanzi, non saggi: la mia narrativa ha l’ambizione di dare ai lettori emozioni, e non solo nozioni. Secondo me il compito del romanziere è di arrivare con l’immaginazione là dove lo storico, con i fatti, non può o non riesce a giungere. Il limite dello storico è proprio la tirannia del fatto: senza fatti, senza prove, senza fonti non può scrivere, resta senza voce. Lo scrittore, al contrario, con la fantasia può creare emozioni e personaggi e, in questo modo, aiutare il lettore a meglio interpretare l’epoca che sta descrivendo. Ma attenzione: il romanziere che si occupa di storia non deve mai allontanarsi dalla verità, non deve mai mentire. La sua fantasia deve essere sempre sorvegliatissima.
Cioè?
Chi scrive romanzi storici o, almeno, di argomento storico, deve impegnarsi a mantenere un equilibrio fra realtà e finzione. È un discorso lungo, ma per riassumerlo direi che il romanziere storico, per essere davvero credibile e coerente, può e deve creare, ma non deve mai inventare gratuitamente. Insomma, anche se fa opera di finzione, lo scrittore che tratta di storia deve essere sempre preparato e documentato, in modo che il realismo delle sue opere sia sempre perfetto. Per conseguire ciò, è necessario che vada sempre a fondo, controllando ogni particolare che ha messo sulla pagina, senza dare mai nulla per scontato.
Non le è mai capitato, nonostante la sua attenzione, di commettere qualche errore nei suoi scritti? Di inserire cioè dettagli erronei o palesemente falsi? E di essersene reso conto solo a opera pubblicata?
Certo che mi è successo. Ad esempio, proprio perché non ho operato su un mio romanzo il controllo di cui vi dicevo, ho fatto comparire in una città che credevo mi fosse perfettamente nota - come Modena - una strada che di fatto non esisteva – come via Lenin, che non è a Modena, ma a Carpi. E a volte mi è anche capitato di essere colto in fallo da qualche lettore attento. Anzi, nel caso della fantomatica via Lenin ho fatto una scommessa con un signore modenese, mio affezionato lettore, che mi aveva contestato l’errore.
Naturalmente ha perso la scommessa?
Certo, e ho dovuto pagargli una cena nel migliore ristorante della città. E voi sapete come, e soprattutto quanto si mangia da quelle parti!
Da quale storia (o da quali storie) nasce l’ispirazione dei suoi romanzi?
La storia mi piace moltissimo. Soprattutto la storia contemporanea. Le vicende che amo di più sono legate al periodo della seconda guerra mondiale, con particolare riguardo agli episodi della persecuzione degli ebrei. Quanto alla mia ispirazione… bè, forse “ispirazione” è una parola troppo grossa. Direi piuttosto che le idee per i miei romanzi, oltre che dalla grande storia, nascono da piccoli particolari, da momenti di riflessione, o a volte anche da avvenimenti minori (o minimi) che io stesso vengo a sapere, e poi rielaboro.
Per esempio?
Nel romanzo che ho appena pubblicato, Il ponte delle sirenette, tutto è nato dalla storia minore di un piccolo ponte di Milano, la città dove oggi risiedo. È un ponte in metallo, al parco Sempione, adornato dalle statue di quattro sirene che, come tutte le sirene, non sono mai troppo vestite. I milanesi le chiamano affettuosamente “le sorelle di ghisa” o, più familiarmente, parlano del ponte come “el pont dei ciapp”. È anche diffusa la credenza che porti fortuna accarezzare il didietro di queste statue.
Questa è l’idea iniziale. Ma la storia delle sirenette come prosegue?
Forse vi dovrei invitare a leggere il romanzo, ma per adesso vi basti questo: c’è una leggenda a Milano secondo la quale le sirene, venendo dal mare, entravano nella città risalendo i Navigli, si accoppiavano volentieri con gli uomini, e davano poi alla luce dei figli, anzi, per una particolarità della loro stirpe, unicamente delle figlie, anch’esse sirene. Questo è lo sfondo della vicenda. Le protagoniste della storia sono, ovviamente due sirene milanesi, madre e figlia. Si chiamano Colombo, cognome che in quella città si dà ai trovatelli, ai senza padre, ai figli di N.N., così come a Firenze queste stesse persone vengono chiamate Innocenti e a Napoli Esposito.
Se poi volete una risposta da scrittore vero e proprio, vi potrei dire che la vicenda delle mie sirenette è un pretesto per narrare la storia della Lombardia e, in particolare, della città di Milano.
Che lingua usano i suoi milanesi? Il dialetto?
Vedete, a me non piacciono gli impasti linguistici, in cui italiano e dialetto vengono mescolati nella medesima frase. Preferisco piuttosto riportare per intero qualche espressione dialettale, cercando però di non esagerare mai. D’altra parte neppure amo chi usa una lingua del tutto distaccata dai propri personaggi. Persino in autori sommi come Manzoni capita a volte di assistere a scivolate francamente ridicole, come quando Renzo e Lucia, nei Promessi Sposi, si servono di espressioni toscaneggianti (“passami codesta tazza”) che mai e poi mai i popolani del contado lecchese del Seicento avrebbero potuto usare.
Insomma, quello della lingua è veramente un problema arduo da affrontare in un romanzo di genere locale. Ne Il ponte delle sirenette, più che largheggiare con il dialetto, ho preferito dare all’italiano, che nel testo è prevalente, una lieve coloritura meneghina, di cui mi sono impadronito leggendo e rileggendo le poesie milanesi di Delio Tessa, uno dei più grandi autori dialettali del Novecento. Ma notate bene: non ho voluto usare la poesia del Tessa come repertorio di termini fini a se stessi. Piuttosto mi sono servito di essa per meglio calarmi nello spirito del tempo e nella città che andavo raccontando.
In ogni caso possiamo dire che la sua Milano è un po’ diversa dagli stereotipi correnti.
Diversa non lo so. La mia Milano io l’ho conosciuta nelle notti in cui, giovane giornalista appena arrivato dall’Emilia, un po’ per lavoro e un po’ per divertimento, mi capitava di frequentare i cabaret. Anzi, a quell’epoca, alla fine degli anni Cinquanta, a Milano il cabaret vero e proprio era uno solo, il CUP 64, oggi scomparso. Al CUP ho conosciuto dei giovani che tentavano di farsi strada nel mondo dello spettacolo: fra di loro c’era Giorgio Gaber, un grandissimo artista, cui questo auditorium è intitolato.
Non era però la Milano da bere; era piuttosto la Milano del miracolo economico, piena di idee, di stimoli e di incontri. Anzi, allora tutti incontravano tutti in città. Immaginate che bastava andare in libreria per imbattersi in scrittori del calibro di Dino Buzzati, o anche di Giancarlo Fusco. Oggi, a parte qualche occasione pubblica, è impossibile incontrare gli scrittori, e tanto meno in libreria. Non ci vanno mai. O forse ci vanno quando sono sicuri di non trovare i giornalisti.
Dino Buzzati lo conosciamo tutti, mentre Giancarlo Fusco è uno scrittore oggi quasi del tutto dimenticato. Ci sembra di capire che lei lo apprezzi molto. Ce ne può parlare?
Giancarlo Fusco, eccellente scrittore e giornalista, era un grande bugiardo, ma estremamente piacevole da ascoltare. Le balle, infatti, sapeva raccontarle benissimo. Il meglio di sé, oltre che nelle sue opere, lo dava di notte, al cabaret: era un instancabile conversatore e un grande bevitore. Pensate che alla ditta Nardini, suo fornitore abituale di grappa, per anni furono convinti che all’indirizzo milanese di Fusco, cui periodicamente inviavano un grande numero di bottiglie, non corrispondesse l’abitazione di una sola persona ma, addirittura, la sede di un bar con molti avventori! Solo molto tempo dopo si resero conto che tutti quegli ettolitri di grappa se li scolava solo lui!
Non escludo che, anche grazie a questo suo furioso etilismo, Fusco fosse un ottimo scrittore. Ricordo solo uno dei suoi romanzi, Le rose del ventennio, che ancor oggi mi sentirei di consigliare.
Torniamo allo scrittore Pederiali, e facciamo un gioco. Noi le citeremo alla rinfusa i titoli di alcuni suoi romanzi, e lei, per ognuno di essi, troverà una frase, un ricordo, un pensiero adatto per descriverli o caratterizzarli? Le va?
Proviamo.
“Il tesoro del Bigatto”.
Uno dei miei primi romanzi, pubblicato nel 1980. È ambientato nel Medioevo, al tempo della lotta per le investiture. Un romanzo storico dunque, ma anche una bella storia per ragazzi.
“La vergine Napoletana”.
Questo è un romanzo recente, uscito nel 2009. Anch’esso narra una storia medioevale, che ha come protagonista una donna. Anzi, il romanzo ha proprio l’ambizione di descrivere la condizione femminile in quel periodo.
“I ragazzi di Villa Emma”.
Uscì nel 1989, e narra l’avventura di un gruppo di ragazzi ebrei, perseguitati dai nazisti, che, durante la seconda guerra mondiale, vennero protetti e messi in salvo dagli abitanti di una cittadina italiana, Nonantola, in provincia di Modena. Dal libro è stato anche tratto uno sceneggiato televisivo.
I romanzi di Camilla.
È giusto che diciate “i romanzi”. Di Camilla, che di professione fa l’investigatrice, ho scritto diverse storie a partire dal 2003 (la prima si intitolava Camilla nella nebbia). Camilla è un personaggio fortunato: alcune delle sue storie sono state tradotte e pubblicate in Germania e in Giappone. A questo proposito vorrei farvi notare come per me sia ancor oggi un mistero il modo in cui i traduttori dei miei libri siano riusciti a trovare i toni e le parole adatte per rendere alcune sfumature così italiane, che io credevo impossibili da capire per degli stranieri. Eppure sembra ci siano davvero riusciti: non solo per la loro competenza, ma soprattutto perché, come mi ha spiegato il mio traduttore tedesco, le esperienze e i fatti da me narrati li avevano vissuti nello stesso modo, anche se a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia, e dunque sapevano bene di che cosa stessi scrivendo.
Si può dire che Camilla sia il suo personaggio preferito?
Vi dirò di più. Io sono innamorato di Camilla. Se davvero esistesse, mi ci fidanzerei all’istante. In realtà è il personaggio che utilizzo, nella cornice del romanzo giallo, per indagare l’animo femminile nella società moderna: per renderlo più credibile mi sono documentato, incontrando, fra l’altro, alcune donne-poliziotto. Partendo dalle loro testimonianze, ho poi cercato di trasporre nei romanzi di Camilla le modalità con cui una donna affronta le indagini per risolvere un omicidio.
L’ultimo della serie Camilla si intitola “Camilla e il Rubacuori”.
Sì, “Camilla e il Rubacuori” è una storia diversa dalle solite. Più che un giallo classico come i precedenti, alla Agatha Christie per intenderci, dove l’intelligenza e la logica prevalgono sull’azione, qui la mia protagonista è alle prese con una vera e propria vicenda “nera”. O, se volete, nero-camilliana: dà infatti la caccia a un serial killer.
Che cosa può dirci de “Il sogno del maratoneta”, il romanzo che è stato recentemente scelto, letto e commentato dal nostro GDL?
“Il sogno del maratoneta”, uscito nel 2008, è un romanzo dedicato alla figura di Dorando Pietri, il famoso podista italiano. Nativo di Carpi, mio conterraneo, Dorando è passato alla storia non per una vittoria, ma per una sconfitta. Tutti si ricordano infatti di come, alle Olimpiadi di Londra del 1908, dopo aver staccato gli avversari, entrò nello stadio gremito di folla e giunse in solitudine in prossimità del traguardo della maratona. Purtroppo era così prostrato dallo sforzo da non riuscire a superare la fettuccia bianca se non grazie all’aiuto di un giudice compassionevole. Proprio per questo aiuto indebito fu squalificato, e privato del primo posto. Ma Dorando, pur perdendo la medaglia d’oro, suscitò la simpatia e la compassione universale, e divenne immediatamente famoso in tutto il mondo.
Una bellissima storia.
Sì, molto bella. Tuttavia vi confesso che, prima di iniziarla, sono stato a lungo incerto se scrivere su Dorando Pietri un romanzo o una biografia.
È il dilemma fra lo storico di professione e il cantastorie di cui parlava all’inizio.
Proprio così. Sta di fatto che su Pietri mi ero preparato, avevo raccolto molto materiale, e avrei potuto ricavare un saggio biografico, con il quale tentare un’analisi, da una prospettiva un po’ diversa dalle solite, della società italiana della prima metà del secolo scorso, a partire dalla belle époque fino alla seconda guerra mondiale.
Perché ha deciso infine per il romanzo?
Perché in me ha prevalso lo spirito del cantastorie. Perché i miei personaggi, più che lasciarsi imbrigliare nella saggistica, hanno cominciato a parlare, e a reclamare di diventare veri protagonisti, di essere narrati, di essere mostrati in azione più che descritti.
E così?
E così, una volta di più, anche questo romanzo è venuto fuori come una via di mezzo fra realtà e finzione. Lo potrei definire una biografia romanzata: da un lato c’è l’impalcatura storica, con gli avvenimenti memorabili che si succedevano nel corso del tempo; dall’altro c’è l’intreccio che lega Dorando e gli altri personaggi, un intreccio che a volte è di fantasia, e a volte è autentico. Nel libro c’è anche un piccolo scoop, di cui mi vanto di essere lo scopritore. Un fatto vero: è la storia d’amore, nata su una nave durante una traversata atlantica, fra Dorando, diretto in America per una serie di gare, e una bella emigrante italiana, che stava viaggiando con la famiglia verso il Nuovo Mondo in cerca di fortuna. Pochissimi conoscevano questo fatto: anche perché a quell’epoca Dorando Pietri era fidanzato con la donna che sarebbe poi diventata sua moglie; mentre lei lo aspettava in Italia, lui nel corso di un viaggio di qualche settimana ebbe tutto il tempo per organizzarsi un amore clandestino.
Da questo romanzo è stato tratto un altro sceneggiato televisivo, vero?
Sì, è una fiction prodotta da Luca Barbareschi che uscirà sugli schermi televisivi fra poco. Dorando Pietri è interpretato da Luigi Lo Cascio, mentre il ruolo della bella emigrante è stato affidato a Laura Chiatti.
Lei l’ha già visto? Che ne pensa?
È ovvio che assistere a un lavoro tratto da un mio libro non possa che farmi piacere. Tuttavia devo dire che, come talvolta capita, gli sceneggiatori, per amore di spettacolo, hanno trattato un po’ troppo liberamente la mia storia.
In che occasione?
Per esempio nella rappresentazione della storia d’amore fra Dorando e l’emigrante. A un certo punto nella fiction si apprende che lei non solo è l’amante di Dorando, ma che lo è stata anche di un altro atleta. Guarda caso, proprio di quel maratoneta di New York che, a causa della squalifica di Pietri a Londra, gli aveva soffiato la medaglia d’oro olimpica. Questo non solo è falso, ma è del tutto inverosimile. In ogni caso, se vi capiterà di vedere lo sceneggiato, sappiate che questo sviluppo non è farina del mio sacco, e che anzi io me ne dissocio totalmente.
Per finire, qualcosa di meno impegnativo, almeno all’apparenza. Vorremmo chiederle, come si fa con tutti gli scrittori, qualche consiglio di lettura. Se, per non offendere nessuno, non vuole fare nomi di colleghi italiani, o dei loro libri, può sempre ripiegare sugli stranieri.
L’unico straniero che vorrei citare è John Irving, autore del romanzo che, sinceramente, avrei voluto scrivere io: Il mondo secondo Garp. Quanto agli italiani, non ho nessun problema a parlarne. Anzi, confesso che mi fanno ridere coloro che, rispondendo a questa domanda, dicono sempre: “Sto rileggendo Proust”, oppure: “Ho giusto ripreso in mano Dostoevskij”. Ma quale Proust? A un’età come la loro Proust deve essere già stato letto e riletto. Confessino piuttosto che non conoscono le opere dei colleghi, o che le invidiano, o che non le possono sopportare!
Comunque sia, fra gli scrittori italiani che apprezzo cito Giancarlo Fusco, di cui già abbiamo detto, e Luciano Bianciardi. Degni di nota sono anche Bruno Gambarotta e Inisero Cremaschi (un milanese residente a Palazzolo sull’Oglio). Ricordo volentieri infine un amico, Roberto Barbolini, con cui ho collaborato, e che è l’autore di Piccola città bastardo posto, un romanzo biografico dedicato a Antonio Delfino, scrittore, poeta e giornalista di Modena.
Ringraziamo dunque Giuseppe Pederiali e auguriamogli il meglio per Il ponte delle sirenette, il suo ultimo libro.
Vi prego, non parlate mai a uno scrittore del suo “ultimo libro”. Stasera è la seconda volta che usate questa funerea espressione, e per la seconda volta mi vengono i brividi. Non sapete che porta male? Non sapete che chi è arrivato all’“ultimo libro” di solito non potrà più scriverne nessun altro? Ditemi piuttosto: “il suo libro più recente”. Almeno mi rimarrà qualche speranza di vivere ancora per un po’. Non preoccupatevi, però: il mio è solo uno scherzo. Però ricordate che dietro allo scherzo talvolta si cela la verità.
Grazie e arrivederci a tutti.
Per informazioni sulla rassegna di letture e spettacolari e incontri con l'autore "Un libro, per piacere! Storie d'Italia"
è possibile consultare il sito:
http://www.sistemasudovestbresciano.it/
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